VII

Dai «Sepolcri» alle «Grazie»

Nel lungo periodo che intercorre fra i Sepolcri e le Grazie (gli anni dal soggiorno milanese fino al passaggio a Firenze nell’estate del 1812) la molteplice attività letteraria del Foscolo (attività critica, attività di traduttore, attività di tragediografo) coincide con un intimo e complesso lavoro di approfondimento di motivi spirituali e poetici che in quella attività trovano un’adeguata ricerca di mezzi espressivi e di giustificazioni di poetica. Dall’impeto lirico-eloquente il Foscolo, in un dominio sempre piú sicuro dei propri sentimenti e in una precisazione del proprio mondo interiore sempre piú unificato e maturo, veniva passando ad una poetica piú chiaramente neoclassica, tale che l’impeto di tensione romantica veniva mediato in una disposizione di calma, di rasserenamento armonico. Nella formula del Commento del «passionato» e del «mirabile» il Foscolo tendeva ora ad una fusione sempre piú intima e ad una depurazione del primo elemento nelle dimensioni di serenità e nobile semplicità del secondo, nel distacco del mito, nella sua capacità di universalizzazione e di purificare elementi di una vicenda particolare, passioni urgenti. Su questa strada va considerato il lavoro degli anni fra Sepolcri e Grazie: lavoro di traduzioni, lavoro di componimenti teatrali.

1. Le tragedie: «Ajace» e «Ricciarda»

Fra il 1809-1811 e il 1813 il Foscolo tornò al teatro e scrisse due tragedie: Ajace e Ricciarda. Già nel 1807 era stato rimesso sulle scene il giovanile Tieste ed anzi il poeta ebbe per un momento l’idea di ritoccarlo, ma poi – sia perché distratto da altre cure, sia perché l’opera giovanile rappresentava in sé qualcosa di concluso e di superato – non ne fece nulla e si volse invece a pensare ad una nuova tragedia, l’Ajace. L’intensa vita teatrale milanese a cui il Foscolo partecipava attivamente (tanto che nel 1811 venne nominato correttore di componimenti teatrali per la Compagnia dei Commedianti italiani al servizio di S.M. il re d’Italia), le lodi stimolanti di alcuni amici ed ammiratori, il successo nuovamente ottenuto dal Tieste, dovettero spingere il Foscolo a considerare di nuovo con attenzione una attività artistica a cui pure lo portavano il suo desiderio di gloria e la sua passione per impegni vistosi, di poeta-vate (lato vivissimo del suo animo e non discordante dall’alto senso di una missione pubblica, dal desiderio di una tribuna e di una scena su cui far risuonare, come dalla cattedra di Pavia, alti ammonimenti ai suoi contemporanei). E del resto se la sua vera vocazione era la lirica, il suo bisogno di poesia profetica (viva in lui sin dall’epoca delle poesie del «suo conio») si incontrava con un’effettiva tendenza alla creazione di figure, di personaggi, che è cosí scoperta nei Sepolcri tutti pieni di persone, di caratterizzazioni esemplari e movimentate che potevano illuderlo di una autentica vocazione tragica, mentre era solo una poetica esigenza di rappresentazione eroica, di evocatore di eroi.

E d’altra parte, della nuova poesia che maturava in lui l’Ajace indicava, fuori dell’accentuazione di personaggi e dell’azione, l’intonazione piú serena e pensosa, l’utilizzazione della lezione omerica nello smorzarsi delle punte piú volitive dei Sepolcri, nel prevalere di una malinconica armonia sempre piú vasta e poetica. Ed è infatti l’Ajace la tragedia che può davvero interessarci in questo passaggio dai Sepolcri alle Grazie, non la Ricciarda[1], la cui importanza (notevole per il tentativo di un proprio romanticismo autonomo e per l’ambizione di un linguaggio meno letterario e classicistico[2]) è artisticamente quasi nulla e la cui posizione quasi una parentesi nella piú sicura linea della poesia foscoliana. Tanto che potremmo farne solo un accenno fortemente limitativo indicandola come lo sforzo piú autonomamente drammatico del Foscolo e come la riprova piú sicura della sua incapacità teatrale.

La forzatura dei caratteri estremi (soprattutto il parossistico Guelfo che ucciderà la figlia Ricciarda per colpire irrimediabilmente il fratello rivale Averardo e il nipote Guido che di quella è appassionatamente innamorato) ricorda il giovanile Tieste e cosí lo ricordano l’aura di orrore della scena notturna e sotterranea (tutta la tragedia si svolge nei sotterranei del castello di Salerno e precisamente fra le arche dei morti principi), l’incontro di amore e morte nel legame fra Guido e Ricciarda, nonché l’ingenuità del tiranno animato dall’odio (là Atreo, qui Guelfo) in cui il fondo piú eccitato del Foscolo si traveste in una debole e poco efficace motivazione politica e patriottica, fonte di tirate eloquenti sulla «misera Italia», non certo di effettiva poesia.

Nel complicato groviglio di sentimenti dei personaggi, dominano esplosioni di una tensione meno interessante di quella del Tieste, in cui si trattava di una crisi di formazione, di uno “Sturm und Drang” salutare ed in cui il verso foscoliano veniva precisandosi.

Unica voce piú limpida e consona al passaggio dai Sepolcri alle Grazie è semmai a volte quella di Ricciarda, vista in un atteggiamento, piú che di innamorata, di pia sacerdotessa dei sepolcri (nelle ultime scene è rappresentata mentre sta «abbracciando silenziosa il sepolcro di sua madre») e della compassione, compassione per l’innamorato, compassione per il padre scellerato, abbandonato da Dio (chiaro ritorno del Saul), compassione per ogni colpa umana.

E indubbiamente in questo incontro di richiami dell’ultimo tempo dei Sepolcri (Cassandra) e di accenni al tema della compassione che troverà sviluppo nelle Grazie si può sentire nella voce di Ricciarda una vicinanza alla grande poesia di quegli anni, di fronte alla quale la Ricciarda nel suo insieme ebbe soprattutto la funzione di scaricare quanto di violento e di passionale era ancora nell’animo foscoliano contribuendo cosí, a suo modo, alla purezza
della poesia delle Grazie.

Ben altra forza generale di suggestione e di vicinanza al passaggio fra Sepolcri e Grazie ha l’Ajace.

L’Ajace (scritto nel 1811 e recitato alla Scala il 9 dicembre con due repliche, ma meditato già dal 1809-1810) riprendeva chiaramente l’episodio dei Sepolcri, dei quali ritornano movimenti ed anche precise parole[3], allargandone il significato ideale e lo sfondo omerico.

Si precisi subito, anche nel caso dell’Ajace, il limite sicuro quanto a risultato tragico: la forza concentrata dell’episodio dei Sepolcri è ben maggiore dell’azione della lunga tragedia, in cui macchinosi espedienti non vincono la naturale difficoltà e staticità, ed anzi la rendono maggiore e piú pesante, con la complicatezza di un intreccio arzigogolato soprattutto nelle astuzie diaboliche di Ulisse, esponente della bassa realtà politica che il Foscolo sempre piú vedeva con occhi disillusi e dolenti.

Si potrebbe dire che nell’Ajace si sente come l’ombra di una grande tragedia non riuscita e non realizzata d’altra parte in lirica, se non in brani particolari e in un’aura grandiosa e mitica che sta fra le versioni omeriche e le Grazie, in un’onda ampia di melanconica, alta solennità, che risente della grande poesia dell’ultima parte dei Sepolcri.

Come il Tieste vive soprattutto come sfogo di tensione cupa e romantica, cosí l’Ajace vive soprattutto in una vasta aspirazione di grandiosità eroica e mitica in cui il grande motivo della poesia che compiange e commemora, che è giusta dispensiera di gloria e profetica annunciatrice di dolorosi eventi (Cassandra ed Omero), si intreccia piú decisamente con l’azione stessa della storia nello scontro fra l’eroismo sfortunato e l’astuzia e la potenza congiunte. E proprio in questa particolare posizione di ripresa dei Sepolcri senza la conquista della fusione delle Grazie, in cui la poesia vive come dimensione consolatrice di tutta la vita, radicandosi in un adeguato animo di misura e di armonia, l’Ajace mostra la sua grande importanza di prosecuzione dei motivi sepolcrali nel prevalere intimo (confortato dalle versioni omeriche e dall’assimilazione didimea) di una serenità in cui ogni dramma è rivisto in nuove dimensioni di contemplazione e di luce trasfiguratrice.

La voce della poesia consolatrice e profetica (Calcante), quella della sensibilità femminile, della compassione e del compianto (Tecmessa) si mescolano all’azione poco organica dell’eroismo sfortunato (Ajace e Teucro), dell’ambizione tirannica, ma non vile (Agamennone), dell’astuzia controllata e malvagia (Ulisse). Quindi non vita di azione (troppo sminuzzata e complicata dalle astruse perfidie “machiavelliche” di Ulisse), non grandezza organica dei personaggi (pessimo Ulisse a cui il Foscolo aveva dedicato tante cure per farlo muovere drammaticamente), ma una grande onda di grandiosa e disacerbata malinconia, a cui collaborano scene di movimento di masse guerriere, viste sugli sfondi grandiosi del cielo e del mare continuamente chiamati nei grandi versi aperti e solenni, e da cui si alzano lamenti melodiosi ed alti di anime afflitte ed eroiche a cui lo stesso Agamennone aggiunge in fine (anche se con la solita suggestione del Filippo alfieriano, già nota nel Tieste) la sua espressione di malinconica insoddisfazione.

Passano nelle parlate in cui si delinea il contrasto fra Ajace (eroe della patria) e Agamennone (ambizione di potere personale)[4] grandi quadri movimentati

(Inerme il volgo

lungo il lito del mar trascorre a torme,

chiamando a nome i padri, i figli e l’ombre

dei perduti compagni. Al grido, ai cenni,

al consigliar de’ prenci un disperato

gemer risponde; e per sé geme ognuno,

per te, per noi, or che il Pelide è spento)

(At. I, sc. II)

liriche visioni di eroi, rievocazioni di scene eroiche che prevalgono nell’azione drammatica:

All’oste ancor parea,

quando il gel della rotta entro le navi

addensava gli Achei, veder sul vallo,

fra un turbine di dardi, Ajace solo

fumar di sangue: e ove dirúto il muro

dava piú varco ai Teucri, ivi attraverso

piantarsi; e al tuon de’ brandi onde intronato

avea l’elmo e lo scudo, i vincitori

impaurir col grido e rincalzarli;

fra le dardanie faci arso e splendente

scagliar rotta la spada, e trarsi l’elmo,

e fulminar immobile col guardo

Ettore, che perplesso ivi rattenne

dell’incendio la furia, onde le navi

a noi rapiva ed il ritorno...

(At. 3, sc. III)

Ma soprattutto alto risuona il lamento sulla condizione umana o vista nei suoi termini piú generali o riferita a casi che di quelli sono la patetica ed intensa mitizzazione. Ed in tal senso questa alta lirica del lamento e del compianto sulla sorte umana vista nei suoi termini piú alti ed eroici è sí la ripresa del finale dei Sepolcri, ma è anche momento essenziale di base alla poesia delle Grazie in cui piú costante è la intonazione di un lamento, di un compianto severo e sereno che presuppone la coscienza degli istinti belluini degli uomini, l’orrore per la «fraterna strage», ed aspira ad un mondo di sentimenti gentili e rasserenati.

Lo stesso tiranno compiange l’umana stirpe («nata ad ingannare ed a tremar!»), e se Ulisse è soddisfatto nel suo usufruire di ogni sfumatura dell’animo umano per ingannare e dominare, tutti gli altri personaggi vivono in quest’aria dolente e magnanima in cui la vicenda del vivere è rivista nel suo ritmo essenziale di infelicità soprattutto in riferimento alle relazioni di società in cui l’eroismo e l’amore di patria e di libertà si trovano di fronte alla potenza e all’astuzia, fra il servaggio e lo strazio della patria (vecchi temi ortisiani rinnovati da una luce piú profonda)[5].

Cosí Calcante nella prima scena dell’atto secondo, malinconico e addolorato, carico di esperienza e condannato a vedere il futuro (come Cassandra), alza un lamento sulla morte di tanti giovani greci (allusione chiarissima alle spedizioni napoleoniche) e su di un futuro inevitabilmente oscuro e delittuoso, facendosi voce di una coscienza sempre piú alta (seppure con qualche dolcezza letteraria eccessiva) della sorte misera degli uomini e della loro dolorosa dignità e della necessità della compassione.

E Tecmessa, che vive in una specie di dolente estasi, in una espansione di affetti fra patetica e sacra, e che campeggia nel V atto prendendo in comune con Calcante l’accento dolorosamente profetico e sacro e in piú una specie di melanconico stupore, si esprime in una serie di alti lamenti lirici che vanno dall’evocazione dell’incontro della tenda dove sono i suoi parenti troiani, ad un tenero e grandioso delirio, in cui rievoca la sua giovinezza felice e la mescola alle immagini della sventura presente, che da personale si fa universale, in una voce di compassione che implora affetti gentili e una possibilità di nuovi uomini non «disumani».

Quando, nell’ultimo colloquio con Ajace (At. V, sc. II), Tecmessa lo prega di ritornare con lei alla sua patria, dalla vecchia madre abbandonata «canuta e assisa / su le tombe de’ suoi», soprattutto lo prega affinché, nell’odio per i nemici uccisori del padre, il loro figlio non debba crescere anche lui «disumano». È questo il punto ideale piú alto della tragedia e sembra indicare sul suicidio di Ajace una via di superamento, una aspirazione a quel mondo di sentimenti superiori, rasserenati e consapevoli, che il Foscolo farà vivere nelle Grazie.

2. Le versioni omeriche

Il lavoro piú minuto e tecnico di questi anni è rappresentato dalle versioni omeriche, lavoro iniziato all’epoca dei Sepolcri[6] e continuato poi a lungo, e sentito dal Foscolo come «contravveleno» al carattere impetuoso. (drammatico ed eloquente) della sua ispirazione e quindi convergente su un piano piú chiaramente poetico, con l’attenzione agli esempi del gusto figurativo neoclassico e con il nuovo autoritratto didimeo di cui abbiamo visto il fondamentale carattere antieloquente ed antidrammatico.

Lavoro il cui primo risultato può considerarsi lo stesso Ajace, in cui l’elemento tragico veniva portato a nascere in condizioni cosí particolari e a svolgersi in versi lirici tutti permeati di suggestioni omeriche, ma che ha il suo vero risultato nelle Grazie.

Lavoro di correzione intima del proprio animo poetico e insieme lavoro minutissimo di tecnica raffinata che nella traduzione (a cui il Foscolo assegnava il compito di «eccitare le stesse passioni nell’animo e le stesse immagini nella fantasia con lo stesso effetto dell’originale» – Opere, IX, p. 317) non solo mediava nel proprio animo il bramato «contravveleno» omerico in precise suggestioni e in una specie di abitudine a maggiore misura ed armonia, ma permetteva quel modernizzamento di Omero e del suo «mirabile», essenziale per ridare alla poesia una capacità di voce autentica entro le singole parole, nel linguaggio riformato «religiosamente» con la stessa lingua della civiltà umana, nel suo momento «poetico», per approdare a «dipingere» non «descrivere» dentro un verso adatto (lo “sciolto” di cui il Foscolo avvertiva le limitazioni: «semiverso», e che d’altra parte vedeva come l’unico adatto per la poesia nuova e classica di cui si faceva banditore ed attuatore) e con quegli «innesti» (di cui parla nel ragionamento Sul catalogo delle navi nel libro II dell’«Iliade»Opere, IX, pp. 364 e ss.) che integrano poesia con poesia e prolungano l’eco della poesia omerica in versi nuovi, non tradotti, come si può vedere nell’esempio citato dallo stesso Foscolo

(Ormenio vede

pender negra dal Pelio la foresta,

e il mare da lontano ode in burrasca).

Nel testo omerico c’era solo il nome della località e, se il Foscolo giustificava tali innesti e ampliamenti dal suo punto di vista di traduttore per ridare al lettore moderno un’impressione precisa che il nome da solo non poteva suggerire come invece suggeriva al lettore contemporaneo di Omero, da un punto di vista piú profondo tale operazione permetteva al Foscolo di costruire versi suoi nella stessa intonazione da lui sentita nel testo e riprodotta nella traduzione, di prolungare in qualche modo la poesia omerica dentro la sua poesia, e cosí effettivamente di produrre già della poesia sua sullo stimolo immediato, nel contatto piú intimo della poesia omerica, riprendendone modi di costruzione e suggerimenti di «melodia pittrice» e cosí sottilmente mediandone in versi suoi il piú segreto insegnamento.

Esercizio essenziale, specie nella direzione del paesaggio (e il Foscolo precisa «il paesaggio è la pittura che, malgrado i belli esempi di Dante, fu men coltivata nella nostra poesia» – Opere, IX, p. 367: e il Pecchio vide proprio nel «paesaggio» una delle novità fondamentali del Foscolo), e tale che ben ci indica (sotto la volontà di originalità di «cose viste» difesa dal Foscolo nella Lettera al Fabre su Omero) come la sua vera originalità (quella delle Grazie) richiedesse la lenta preparazione delle versioni omeriche, un esercizio che alleggerí il suo linguaggio, lo rese flessuoso e limpido, in attesa dell’ispirazione piú forte supplita nelle versioni da una specie di amore per la poesia omerica, per quel mondo di armonia che il Foscolo piú del Monti e del Pindemonte (il neoclassicismo ha il suo culmine nelle versioni omeriche e tradurre poeticamente Omero è per i neoclassici il non plus ultra della loro aspirazione greca) sentiva con personale partecipazione di “greco” (non importa con quanto limite di illusione: «S’io avessi fatto il viaggio nella Grecia descritta da Omero e veduti que’ luoghi, sono certo che, cosí deserti come pur sono e trasfigurati dalla onnipotenza del tempo, m’avrebbero pur aiutato a tradurre non male. E per prova della mia certezza ho quei versi dove Omero parla del regno di Ulisse, che a me toccò di vedere isola per isola nella mia fanciullezza» – Opere, IX, p. 368).

La versione omerica rivela – con l’aiuto delle note cosí sinceramente autocritiche – il formarsi di un verso meno eloquente, ma non meno intimamente energico, in cui la preoccupazione di un risultato musicale si unisce a quella integrante di una visività, di una plastica e flessuosa energia senza durezza, di una limpidezza pastosa e lontana da semplice colore, da semplice sonorità, da effetti come quelli notati nelle parti deteriori dei Sepolcri.

È proprio in questa singolare forma di traduzione-creazione, in questo modo di usufruire degli insegnamenti omerici a contatto diretto con il verso omerico prolungandone l’eco e il tono in versi aggiunti propri, mediandone la suggestione generale di armonia e nobile semplicità e stimolando la propria capacità espressiva, che il Foscolo, sceso nell’intimo della poesia e della tecnica omerica, poteva ricavare insieme una traduzione originalissima (e spesso poesia nuova e bellissima, fortemente moderna, come l’episodio di Elena indotta da Venere a confortare Paride reduce da un inglorioso combattimento o lo stesso episodio dell’addio di Ettore ad Andromaca) e una preparazione singolare, fra esercizio ed ispirazione, del proprio mezzo espressivo fattosi veramente nuovo anche di fronte ai Sepolcri (dove la vicinanza omerica era stata assai minore) e tale che i versi delle versioni omeriche e quelli delle Grazie si riconoscono omogenei anche se nei secondi tutta una potente originale ispirazione vivifica quella mirabile disponibilità stilistica, quel magnifico strumento elaborato e provato in quel lungo, minuto e pure a suo modo ispirato lavoro. Ben diversamente da uno stimolo generale di lettura (a cui il Foscolo pure ricorre piú volte durante la stesura delle Grazie), il contatto con la poesia omerica aveva rappresentato una geniale preparazione (e a volte persino dei risultati che non esiterei a porre in una antologia di poesia foscoliana) alla grande poesia delle Grazie, a quella meravigliosa capacità di espressione poetica cosí nuova, originale e potentemente tradizionale, cosí moderna e classica. In quell’altissima prova di laboratorio artistico, il Foscolo era venuto ottenendo quei singolari impasti di toni, di colori, di suoni, quelle cadenze musicali, quel linguaggio cosí continuo, «fluido e pervio», consistente ed aereo, ed aveva insieme preparato il suo animo ad un senso di armonia a cui da tempo tendevano la sua volontà e il suo istinto di artista.

In questa traduzione-creazione il Foscolo preparava cosí sequenze diverse, fatti nuovi e coerenti al nuovo tono poetico che da questa mediazione nasceva fra versioni e Grazie (tanto che poteva trasportarli nelle Grazie: il passo di Fare, il passo delle «api»; Opere, IX, p. 373) o avvii di versi e di periodi utilizzati in posizioni analoghe e soprattutto nella direzione della “pittura e musica” di paesaggio (e cosí il celebre passo dell’alba sul Lario nasce su di un avvio del III dell’Iliade: «Come quando improvviso Austro sull’alba...», p. 402), e soprattutto nella direzione del paesaggio marino e celeste, del paesaggio greco, che sarà elemento essenziale nelle Grazie. Arricchiva il suo linguaggio poetico nelle sue possibilità di adeguare i piú delicati riflessi interiori in forme dense e limpide, senza alone, evidenti e “allusive”, ricche e precise. La parola omerica è arricchita e approfondita da una sensibilità moderna[7], il rapido quadro di mare o di cielo in funzione di paragone perde il suo pur evidente carattere epico e risalta non in un gusto di decorazione isolata, ma nel raccordo nuovo di una trama “lirica” che prevale sul rilievo epico.

Qual d’incendio che rade alle inaccesse

alpi de’ monti un bosco, il lume sfolgora

lontano, sí diffusa aura di luce

dal ferro delle mosse armi ondeggiava,

dal campo all’aër radiando e al sole.

E col tripudio onde al Caistro a un tratto

l’oche e le gru, da tutte parti, e i cigni

affrettan l’ali candide sul verde

prato di Asio, e di colli flessuosi

fan concento sui margini del fiume,

accampati a drappelli, e il prato è un suono;

sí da tende e da navi allo Scamandro

la spiaggia profondea giovani armati...

(Opere, IX, p. 385).

Come una densità maggiore della parola e un rilievo interno del colore e del suono (di fronte alla piú severa semplicità omerica) rendono con accentuazioni a volte minime immagini intensamente moderne:

ed ei prostrato,

pioppo parea che nato alla convalle,

aereo freme al mormorar di rivi;

(p. 429)

l’asta... oltre al cocchio

disviata, squillava ignea tra venti;

(p. 454).

Quando poi movimenti dolorosi e solenni compaiono nel tessuto poetico si avverte come una vibrazione intima e dolente

(con freddo tremito i corsieri

s’arretrarono, e tacita sovr’esso

versava eterna oscurità la morte);

(p. 439)

e cosí specialmente quando affiora il senso della bellezza transeunte o dell’eterno fluire delle generazioni da vita a morte:

Son le umane tribú foglie su’ rami

ilari e folte in maggio, aride al verno:

la selva al Sol le crea, l’anno le perde

sí fiorire e perir vedi i lignaggi...

(p. 459)

o quando – con movimenti che divengono tipici nelle Grazie –, fra esclamazione dolorosa e contenuto abbandono, si alzano brevi e lirici lamenti sulla sorte generale o particolare di uomini, sulla loro cecità e illusione:

dell’Eroe la sposa

derelitta ferivasi le gote

inondate di lagrime; sapea

che lontano chiudevalo un sepolcro,

misera! e ancor Protesilao chiamava

(p. 395)

E svania per le cieche aure confuse,

vinto di grata illusion lasciando

lui che già certo il non futuro evento

spera, e.in quel giorno il sacro Ilio distrutto.

Misero! non vedea come il Tonante

maturava i destini; e quanto pianto

e quanto sangue di continua guerra

dovean pagare al ciel Teucri ed Achei

(p. 372).

Naturalmente non c’interessa la fedeltà di queste versioni (il Monti riuscí a tradurre con maggiore continuità e con maggiore fedeltà di entusiasmo narrativo ed epico) che spesso sembrano indugiare eccessivamente in una cura minuta di intensa liricità e di risultati particolari (e si ricordi che nella ricerca di adeguazione della «nobile semplicità» omerica il Foscolo teneva pur presenti – ricordati ancora nelle Grazie – Pindaro, Callimaco e Catullo). Ci interessa invece (oltre ai risultati poetici veramente alti di alcuni episodi) la formazione, dentro questa complessa operazione artistica, di una nuova disposizione stilistica, di una esperienza di linguaggio poetico che dettero il loro frutto poetico nelle Grazie, quando vennero assicurate da un’ispirazione centrale ed unitaria che d’altra parte (ciò che toglie alle osservazioni fatte il possibile equivoco di indicare la nascita di mezzi espressivi in un semplice esercizio tecnico e il loro accoglimento automatico in un secondo momento totalmente poetico) già in quel lavoro aveva mostrato la propria direzione e la propria presenza ancora parziale come poesia dell’«armoniosa melodia pittrice», come ricerca di un’armonica misura, di un mondo poetico rasserenante, di sentimenti senza urgenza drammatica ed eloquente. Ed in tal senso come preparazione ad un’espressione armonica e disacerbata, ad un chiaroscuro attenuato e sensibilissimo, ad un linguaggio morbido e limpido, continuo, consistente e capace di adeguare perfettamente moti sottili dell’animo, gradazioni di sentimenti, impressioni intense e fugaci della realtà, si deve calcolare la versione sterniana con l’annessa Notizia di Didimo Chierico che pure rappresenta non una semplice esercitazione tecnica, implicando nell’animo del personaggio di Didimo e nella disposizione spirituale rivelata nella stessa versione in collaborazione geniale con lo spirito sterniano un preciso formarsi di sentimenti e di atteggiamenti che si esprimeranno con forza poetica ed intera nelle Grazie.

3. La versione sterniana

La traduzione del Viaggio sentimentale (pubblicata a Pisa nel 1813), con la Notizia intorno a Didimo Chierico, ci interessa nei riguardi delle Grazie anzitutto per la precisazione del personaggio di Didimo (germinato a contatto con le pagine sterniane sin dalla prima redazione della versione in Francia ma precisatosi durante il soggiorno fiorentino nel 1812), parziale autoritratto del Foscolo in reali disposizioni del suo animo piú maturo e in aspirazioni ad un dominio, ad una saggezza ironica e complessa che usufruisce di suggestioni non solo dello humour sterniano, ma della saggezza di Montaigne, Rabelais, Cervantes (Ugo-Chisciotte si chiamò scherzosamente il Nostro), dell’Orazio delle Satire e persino di caratteristiche pariniane («Orecchio ama placato la Musa, e mente arguta e cor gentile»). Didimo rappresenta bene rispetto alle Grazie l’aspirazione foscoliana ad una saggezza non mediocre ed egoistica, ad una misura che domina, non ignora le passioni e proprio la disposizione ad una considerazione complessiva della vita nel «calore di fiamma lontana», nel distacco sospiroso e sorridente lontano dalla freddezza e dallo sdegno, nella tolleranza e compassione e in una fedeltà non superba ai propri principi. Questo atteggiamento non impetuoso e piú attento è alla base di una capacità nuova di dipingere con ferma e sensibilissima mano intimi moti del cuore, gradazioni di paesaggio, di attenuare e rendere piú morbidi e limpidi colori e suoni (il Foscolo parla spesso in quest’opera di toni e semitoni), di modellare l’espressione fino a nitide e precise sfumature.

Naturalmente sarebbe assurdo voler far combaciare esattamente questo parziale autoritratto (e aspirazione di autoritratto ideale) con tutta l’anima da cui nacquero le Grazie: l’ironia, cosí utile come primo distacco dalla traduzione immediata e impetuosa delle passioni, cede ad un tono sacro che riprende l’essenziale atteggiamento dei Sepolcri rendendolo meno rilevato e piú attento e contemplativo (tono sacro non privo di sfumature di eleganza ben confortate dal testo sterniano e come da certi aspetti del periodo ortisiano: le lettere padovane, il Romanzo autobiografico, parzialmente Carteggio Arese, Odi), e mentre Didimo coglie non so qual dissonanza nell’armonia delle cose del mondo, nelle Grazie è soprattutto dalle dissonanze e discordanze ben accertate che si risale all’armonia. E sarebbe ancor piú assurdo voler trovare nell’alto esercizio della traduzione sterniana l’unica scuola dello stile delle Grazie. Ma anche da un punto di vista piú stilistico, come non sentire nella congenialità di un’arte ispirata al motivo del «sorriso e della lacrima», del «sorriso e del sospiro», l’importanza nella prosa della traduzione sterniana, di un linguaggio cosí sensibile e preciso, di una struttura cosí sicura e sottile ed agile? Come le versioni omeriche avevano preparato la fantasia e lo stile foscoliano ad una apertura e continuità luminosa e serena, ad immagini affabili e sublimi, ad un linguaggio morbido e limpido, impastato di colori e di suoni («melodia pittorica»), cosí la versione sterniana elaborata per anni e portata a termine proprio nel periodo di inizio delle Grazie porta l’appoggio di un esercizio stilistico minuto, calcolatore di effetti minimi, di echi sommessi, di forme allusive e sfuggenti, lievemente trepide e nitide, di svolgimenti senza enfasi, di teneri riflessi patetici, di tenui impressioni sensuali rapidamente contenute e spiritualizzate (la voluttà spirituale sterniana). La ricerca di toni e mezzitoni, di parole lievi e precise («aerino» per una sfumatura di azzurro), lo smorzamento delle passioni tradotto in smorzamento di eloquenza, coincidono con un’attenzione maggiore (nel testo stimolatore e nella concreta ricerca della traduzione-creazione) alla vita dei sentimenti nel loro piú tenue e intimo «chiaroscuro» in condizioni di una società gentile e civilissima, elegante e naturale, come si può sentire poi in alta poesia nella rappresentazione cosí affascinante della Firenze dei «lucidi teatri» e delle donne gentili «emule di avvenenza e di ghirlande». In un quadro di società settecentesca, di tenue avventura romanzesca (ma diverso dal mondo alto e romantico-neoclassico delle Grazie), il mondo sterniano della cortesia, della civile compassione, del delicato calore femminile, sembra bene un precedente (tradotto com’è in una espressione aderente e coerente) del mondo soave delle Grazie: «Siate pur benedette, o lievissime cortesie! Voi spianate il sentiero della vita, voi, gareggiando con la Bellezza e le Grazie, che fanno alla prima occhiata germinare in petto l’amore, voi disserrate ospitalmente la porta al timido forestiero», Prose, III, p. 60). Quanto nella traduzione sterniana vi era di troppo “settecentesco”, ironico e malizioso ed eccessivamente minuto e prezioso, venne superato nella poesia delle Grazie, nata da ben altra profondità di temi, ma come il «calore di fiamma lontana» di Didimo è essenziale per il senso catartico dell’arte (il velo delle Grazie) e per il coerente stato d’animo del Foscolo creatore di quella poesia dell’armonia e dell’aspirazione all’armonia, cosí la prosa della versione sterniana fu scuola di uno stile sensibilissimo e nitido, di lessico aderente e lieve, di una costruzione aliena da ogni enfasi e da ogni durezza, di un tono costante e pur capace di vibrare ad ogni minimo impulso.


1 Fu scritta fra il 20 settembre 1812 e il 5 giugno 1813. Recitata a Bologna il 17 settembre 1813.

2 E si può osservare che nella fedeltà al teatro alfieriano non mancava una suggestione delle tragedie schilleriane conosciute appunto in quell’epoca dal Foscolo.

3 Le «ardue spoglie» (Opere, IX, p. 64); «il cielo mirando» (p. 66), «Ilio, opra de’ numi» (p. 57), «toccando le frementi are degli avi» (p. 71), «solo e sul lito piú deserto ai Numi» (p. 82), Ettore «a morir per la tua / patria, e cadesti lagrimato e santo», ecc., ecc.

4 Chiare allusioni al presente italiano e ripresa del vecchio schema politico foscoliano in cui l’eroe della patria, lottando contro il tiranno eccessivo e necessario, si suicida per non suscitare discordie civili e trascinare la patria nel sangue: Ajace come il Gracco dell’ode Ai novelli repubblicani.

5 Nella complessa posizione ideale dell’Ajace un motivo fondamentale è appunto quello degli uomini piú generosi «sempre fra il giogo e libertà perplessi», perché disgustati dal sangue delle guerre civili che nella lotta antitirannica dilanierebbero la patria. Perciò Ajace si suicida e nel grande monologo del V atto, scena IV, riassumendo con piú forza i lamenti lirici di Calcante, Tecmessa e Teucro, rivolge un addio alla vita oggetto di amore e di orrore, rifiutandosi di accettare le regole crudeli dell’azione violenta, di giungere al dominio e alla libertà «attraverso un mare di sangue». Posizione estrema di rifiuto della «fraterna strage» su cui (anticipata dal voto di Tecmessa) nelle Grazie si eleverà la posizione positiva di una vita illuminata dall’armonia, di una civiltà superiore, piú umana e capace di vincere in se stessa gli istinti di preda e di strage. «Gli ultimi passi miei verso la morte, / giudice vero di noi tutti, alfine / libero e forte io volgerò. La speme / piú non m’illude, e certa è la mia pace. / Fortune umane tenebrose! Questa / spada, ai Greci fatale, Ettore diemmi: / la mia si cinge: e col mio balteo il vidi / legato esangue e strascinato. Or questa / spada, sul lito a cui guerra io giurai, / presso la tenda ove sdegnai curvarmi, / mi prostra... / Ahi! tornano frementi / le umane cure, e m’abbandona l’alta / securtà della morte. Ajace, fuggi / ove piú non vedrai né traditori, / né tiranni, né vili; ove imitarli / piú non dovrai nel calunniar chi forse / or per te more. O uomini infelici / nati ad amarvi e a trucidarvi, addio! / O Salamina, o patria mia, paterne / are, da me non profanate mai, / campi difesi dal mio sangue, addio! / Ch’io veggia e adori quella sacra luce / del sol prima ch’io mora. Oh, come s’alza / splendida, e il mio occhio avvilito, insulta! / Ah, se rivive la mia fama, allora, / o glorioso, eterno lume, o sole: / sovra il sepolcro mio versa i tuoi raggi. / Or ti guardo dall’Erebo, e ti fuggo, / e nell’ignota oscurità m’immergo / inorridito!...».

6 Anzi si può pensare che l’intensa lettura omerica del periodo francese si fosse già precisata in primi tentativi di versione.

7 Foscolo si preoccupa sempre di accentuare originalmente, con un proprio intervento poetico, le parole e le immagini omeriche sottolineando poi nelle interessantissime note la propria interpretazione e la propria aggiunta appoggiata ad una personale impressione, come quando adoprando la parola «perso» per il colore delle onde in movimento («le perse onde» invece del piú generico «splendide» o «purpuree») precisa: «Per me so d’avere veduto il Mediterraneo e l’Oceano, sommossi dal vento, risplendere d’un colore tra l’azzurro ed il paonazzo» (IX, p. 357).